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Sandra Pinto

Open air

in Akragas, Luis Serrano, Alessandro Crapanzano. Catalogo della mostra (Roma, galleria Honos Art, 21 aprile – 4 giugno 2016)

Roma (Arbor Sapientae editore) 2016, pp.7-9

 

  

Da quando conosco Luis Serrano - familiarizzo con gli incanti del suo territorio creativo dall’alba del Duemila -  mi rendo conto che faccio una sola differenza nel suo lavoro: ed è quella tra tutti i generi da lui praticati e non sono pochi (figura, ritratto, natura morta, anche di fiori, interni …),  e l’”open air”. Sia nel caso, come in questa occasione, in cui il soggetto è eventualmente un solo albero, sia, in generale, che si  tratti di un paesaggio campestre, un prato, un pascolo, un sentiero, avverto nel genere un senso ultimativo diverso dal soffio leggero di quel vago surreale che negli altri campi praticati da Serrano è di natura esplicitamente culturale, storica, accademica, storico-artistica e offre indicazioni ormai magistrali al panorama attuale di ricomparsa mondiale in forze della pittura, e con essa, della figurazione.

Le rappresentazioni della natura, invece, mi sembrano non  contenere la medesima oggettività impassibile che caratterizza le figurazioni prima nominate,  come quelle dei pomi sospesi nel vuoto, o dei letti disfatti della mostra al Museo Praz di qualche anno fa. Quando Serrano si trova in campo aperto, già al primo concepimento dell’idea e poi durante tutte le fasi del lavoro che si svolgono e si concludono nello studio, ho come la sensazione che sulla tela o sul foglio la natura prema per farsi voce, e l’artista la registri, forse involontariamente, forse inconsapevolmente (non ho ancora voluto chiederglielo), come superiorità della vita perenne di essa, che, rispetto alle vicende umane, sembra partecipe di una creazione diversa e inesplicata. La prima immagine paesistica di Luis che ricordo, in casa sua, era un quadro piccolo, svolto in orizzontale, con una prospettiva molto alta e gli altri piani digradanti parallelamente, e fu quella che nel tempo mi  suggerì la chiave di lettura che mi trovo anche adesso negli occhi, sempre più confermata. In queste opere avverto come una sorta di sospensione iniziale e subito dopo una spinta che sembra raggiungere una attenzione più agguerrita su significati che si nascondono all’evidenza e si portano invece su questioni che esulano da quelle di matrice umana, storica, civile. Non è questa una condizione abituale nella pratica di una pittura all’aria aperta e ciò che in fondo credo sia il caso di Serrano è che il suo sguardo sulla natura non sia “soltanto” paesaggio ma una ricerca di verità molto più misteriose e indecifrate da intendere e da comunicare.     

                                               

Le opere che vediamo oggi ci mettono di fronte ad immagini di Sicilia, estate avanzata nelle campagne dell’agrigentino, in una luce che varia a seconda dei casi, e che staglia separatamente, a seconda, un ulivo, un fico, un mandorlo, davanti a un muretto o a un pietrame più grossolanamente lavorato a gradoni. Il tema è realizzato nella dimensione maggiore (70 x 100) a carboncino; e in dimensioni minori a olio e a pastello. Nella sua consistenza monocromatica, il carboncino è sorprendentemente il dominus perfetto dell’immagine e si appropria con sicurezza  dell’intenzionalità di un fare “dal vero”: l’opera risultante non è un monocolore grafico; col solo carbone  l’immagine si ritrova tutto il cromatismo che le serve per apparirci contro luce nella verità momentanea degli effetti pomeridiani; il carboncino, arrivando a toccare i registri di tutti i nostri sensi, rende bruciata dal sole, e allo stesso tempo, anche riparo salvifico dall’afa, la chioma dell’albero, e questa, assieme alle radici serpentiformi sul terreno, si muta in una sorta di divinità vegetale multimillenaria. La trasfigurazione del monocolore parrebbe essere tanto riuscita da non dover rivaleggiare con il mix dei colori nelle versioni più piccole del soggetto realizzate a olio o pastello: l’effetto verità è in tutti i casi salvaguardato in pieno nei suoi valori. Altrettanto lo è nell’unica versione del soggetto in grande formato e di audace magnificenza in rosso ruggine, degno protagonista.

Accanto agli alberi, stesse tecniche, stesse luci, una parete della Galleria riceve le immagini a pastello di manufatti architettonici millenari in rovina che Serrano denomina “arcosoli”; l’ellenicità senza tempo di questi è strettissima parente degli alberi, e com’essi sembra non derivare dalla storia, ma nascere dalla crosta terrestre all’inizio dei tempi.

Un albero alto e magnifico - ricordo - di sette, otto anni fa, in primo piano, sul ciglio di un qualche trivio o quadrivio di campagna toscana, e un’albereta, invece, spagnola ripresa da lontano, avevano anticipato e forse preparato - credo che Luis oggi ce lo voglia ricordare -  a comprendere che, dovunque e in qualsiasi condizione si trovino, gli alberi sono creature speciali cui dobbiamo il rispetto che merita la spiritualità, la paternità, la benignità che la natura loro conferisce.

                                                              

La mostra odierna è una doppia personale, e affronta la complementarietà sulla base di un rapporto “di coppia” con la fotografia, istituito con gli stessi e altri alberi di Sicilia, da Luis Serrano e dal partner fotografo, Alessandro Crapanzano, con cui prendo contatto felicemente qui per la prima volta. I due amici intendono esibire il paradosso di uno scambio di identità delle rispettive tecniche. In principio è la pittura. Le figure dipinte di Serrano nel mistero della loro realtà pittorica, già esaminato, possono anche attirare il commento di “fotografiche”. La “bravura” del fotografo si dimostra all’inverso non nel fotografare dal vero lo stesso albero o lo stesso documento archeologico bensì nel fotografarne l’immagine dipinta dell’amico, o competendo con essa, mantenendo alle proprie fotografie una caratteristica pittorica perfino quando poi ad essere selezionati sono anche alberi diversi o diversamente inquadrati rispetto a quelli di Serrano. Il trucco di fingersi pittore è tutt’altro che facile ma non sgomenta Crapanzano che vi si misura con  una sicurezza assoluta. Ma se la “verità illusiva” si conferma prerogativa sia di chi fotografa sia di chi dipinge, lo scaltro professionista, pur consapevole che anche quel minimo di durezza che la materia e la realtà fotografica non possono non contenere si rende pressoché invisibile, non lo è del tutto per sua volontà e, diciamo anche, per sua firma sommessa.

Il caso che oggi mi ha messo davanti ad una immagine nel supplemento settimanale del “Corriere della Sera” (“Sette” dell’11 marzo 2016) mi fa sterzare adesso proprio in punta di conclusione. Serrano e Crapanzano, i due compagni del gioco a chi “dipinge talmente dal vero che” e chi “fotografa pittura talmente illusoriamente che” meritano entrambi di confrontarsi con la foto di una figura d’albero, solitario essere vivente in una prateria sconfinata, desertica, del Nebraska (foto). Lo Stato è situato nel centesimo meridiano, il “Dirty Meridien” che attraversa gli USA, immensa regione brulla e quasi disabitata di cui il celebre fotografo e storico dell’arte, uscito da Princeton, Andrew Moore per dieci anni ha scrutato la fisionomia, fatta conoscere oggi in Italia con la mostra dedicatagli, attualmente aperta a Bologna. L’albero condivide con i fratelli siciliani la chioma, anche se non tutti i rami ne sono coperti, e le radici all’esterno che bevono un po’ di umidità da una pozzetta fangosa sul terreno. Lo circonda l’immenso spazio vuoto della desolata prateria sotto un cielo annuvolato. Si può immaginare che un qualche agricoltore isolato e ordinariamente distante lo abbia piantato e lasciato lì a testimoniare la solitudine, ma anche la vitalità, di quella creatura pur abbandonata a sé stessa. Un quadro, nella sua purezza esclusivamente fotografica, di qualcuno che non può negarsi parente per affinità con i due attori di questa mostra romana, in compagnia dei quali fa in qualche modo da terzo polo: tra la natura di Serrano, che si da’ come momento, visione momentanea, di una ricerca senza fine di verità pittorica, e la regola tutta intellettuale di Crapanzano, un “cogito ergo res est” che  mette perentoriamente in gioco la realtà della fotografia. 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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