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Marco Vallora

Felicemente disfatti

in Bedding, catalogo della mostra (Roma, Museo Mario Praz, 6 ottobre - 4 novembre 2012), Roma (Palombi Editori) 2012, pp. 41-47

 

 

Allora, parto, partiamo insieme da 'disfatto', una parola che mi piace moltissimo, molto più di fatto, anche nel senso delle ormai pappardelle insopportabili della filosofia formato-  settimanale, che non lascian nemmeno più in pace la fantasia visionaria del nicciano consiglio "non esistono fatti, ma soltanto interpretazioni" (e che ci frega che arrivi poi il professorino zelante ad azzerare tutta quella bella tensione, per dirci pedestre che invece i fatti esistono eccome, bella scoperta, e che anche Nietzsche quando aveva bisogno d'un letto, e massime ammattito, non s'accontentava certo delle lenzuola ciancicate delle interpretazioni ermeneutiche e sicuramente avrà avuto accanto pure il fatto fattivo ed artigianale d'un tavolino da notte educatamente Biedermeier, con sopra avvoltolate magari

ancora le lettere di Lou e poi i fantasmi di Cosima-Arianna, tra i lenitivi, impiastrati d'ideologia, della sorora Elisabeth) oppure partiamo invece, salpiamo (i celebri letti a barca di stile Impero di Casa della vita...) dalla semplice parola bisillabe, ed un poco assopita, 'letto', che ci piace molto meno di disfatto, non foss'altro perché si presta all'ambiguità d'un gelido calembour... No, non scenderemo alla facilità stolta d'un ribattuto, ributtante 'letti letti', per questi letti sfatti, e rifatti, dell'ospitalissimo Luis Serrano. Anche perché non sono davvero mai 'letti', nel senso di interpretati, decifrati, commentati, dalla leccatura diligente della pennellata, no, sono lasciati lì, abbandonati come didoni della quotidianità, nella pelosa e tepida impenetrabilità dello sguardo amoroso che lascia; del calco corporeo, appena scaldato ma già disertato, che sta uscendo di scena. Dalle distratte isole di circe, ripetute ed omologhe, dei nostri tristi isolati umbertini, incellophanati di condomini. Tutti diranno e annoteranno mentalmente, coerentemente, che si tratta di letti appena disertati dai loro occupanti, in questo gioco d'assenza-presenza, che spesso produce alta pittura, lo si è detto per Hopper, per Ferroni, per Hammershoi, con un effetto di ia signora (marchesa: per scomodare Valéry) è appena appena uscita', ch'è per noi uno sbrigativo un poco troppo telefonico. No, noi vorremmo cercare d'isolare un'altra idea di assenza-presenza, che è quella dello sguardo stesso dell'artista, che è presentissimo alla 'scena del delitto' (del suo preciso riverberare pittorico) ma che già sta autunnalmente allontanandosi, anche lui, a zampette di cannocchiale, in un'impercettibile retro-carrellata antonionesca, che è quella della melancolia, accolta tra le braccia nostalgiche ed umide, della mestizia abbandonica. Sì, è uno sguardo pudico e sommesso, che saluta e si congeda, quello transitato da questa pittura esattissima ma bagnata di umori, lontanissima dalla tagliente fedeltà fotografica d'un iperrealismo congelato, discaro, come scopriamo, all'artista. Se pure esiste qui una fedeltà di labrador-pennellata, melanconicamente festosa, con le sue orecchie salutanti e flessuose, perché sa che presto sarà rinchiusa, per sempre (nella sua umida solitudine verniciata, d'assoluta dominatrice-ostessa, di quelle allagate e frigide piastrelle modeste, albergatone, di dolciastra pedanteria liberty, che cedono via via calore, pattinando metalliche, e specchiandosi di vanità, come un lago al tramonto, in quella silenziosa, gocciante entropia domestica, che non smette di tentarci) quella pennellata d'amichevole commiato, non sarà dunque per nulla placcante, presentificante, coprente e scattante, ma al contrario, si rivelerà febbricitante di pigmenti, alitante di combattuti spleen ottici, fresca ed ansimante di sommessi baci fiamminghi, velatamente (velaturatamente) doviziosi. Con questo vogliamo dire che è difficile capire, e vano, se si certificano tutti esser stati dei letti effettivamente abitati dal sonno e dall' affezione dell'artista, se sian letti-journal della sua trafficata trafila esistenziale, ma che importa poi, se sono viluppi e temperie comunque di desideri depositati, di naufràgi esperiti dall'occhio prensile, che la sua pittura lucrezianamente già ora pennellando rimpiange, nell'attimo stesso in cui li celebra e canta, allontanandosi - ed allontanandoli, in una raffrenata liturgia della prossima sparizione. Certo, viene istintivo il riferimento a Ferroni, che so l'artista aver scoperto successivamente, a questa sua battente incursione nella natura morta del sonno familiare (è difficile trovare un letto vedovo o celibe, in questo suo bestiario declamato d'impronte tralasciate, e subito rannuvolate dall'inclemente incedere militare di ogni mattino aziendale; perché son tutti letti dormiti e sfatti, ciancicati di rughe, arrugados, come ho scoperto che si dice nella sua bella lingua cervantina. O Calderón della Barca: la vida es, sonnolentemente ormai, suefio). Attutiamo, infatti: la vita è fragile sonno. Trattenuto tra le lenzuola masticate e vorticanti d'un notturno battello frenato, attraccato alla terra, che s'è impregnato tutto dei suoni lenti del passare immemorabile d'un Lete perenne, che ora bussa alla porta, scortese, come una servitù rumorosa ed invadente, sopraggiunta troppo in anticipo su ogni ritmo (spesso queste stanze d'interno provvisorio danno come il sapore sartriano d'hotel metafisico, se non esageriamo. L'hotel ballerino della vita, ove siamo gettati tra i marosi esorbitanti d'una nevrile motilità sovreccitata: sovraesposta). Però Ferroni non conosce, o condivide, la festosità centellinata della pur crepuscolare luminosità lattiginosa degli interni di Serrano: Ferroni sta sprofondato in un baratro faustiano di cicche e di ciabattose orme infernali, incatenato al grigio inchiostrato e fumigante della ferente incisione calcografica, anche quando si protende -macchiandosi d'intenerimento cromatico- verso le lusinghe pastose d'un colore timido e riottoso, albeggiante ma sempre ribelle. Stimmate. In Serrano si disegna un'imprevedibile ilarità luminosa e lattescente del colore, ch'è estranea alla castigata solitudine eterna del calvinismo acquafortico di Ferroni. Colori color plaid e batuffolo d'etere disteso, che non smette di squillare tra i binari obbligati d'una lettiera claustrofoba, anche se questo squillare trionfante è come trementinamente immodestito da un velario nostalgico, slontanante che non riesce però a contenere la felicità degli abbracci cromatici. Felicità. Cercando di ricordare un passo di Robert Walser, una passeggiata nella neve, tanto per cambiare (e la neve potrebbe davvero essere il candido lenzuolo che la Natura tira sino a sè, fino al mento, della sua natura travagliata) dove si stampava la sagoma tiepida d'un viandante schubertiano, che se n'è già andato nel gelo, ma quell'orma

cantante rimane, concava, accoglientemente spiritica, ho ripreso in mano quel centone innamorato che sono i suoi "Ritratti di pittori". Anche per regalarmi un viatico, un conforto notturno. E ho trovato soltanto qui e là, era una prima lettura, un profluvio di candida felicità, spesso auto-velleitaria, cioè volontaristica (persino di fronte ai carcerati rotanti e robotizzati di Van Gogh). Felicità della pittura. Così ho spillato questo passo, sopra un album monografico dedicato ad Anker, il pittore svizzero di tante tazze, tazzine, ceramiche e scene d'interno aneddotico, che mi pare funzionare qui, comunque, alla meraviglia, perché la felicità si è un po' come ritratta, imbarazzata, da queste pagine illuminate dalla felicità innocente della semplicità (ah, saper essere innocenti e veri come Walser, ma è inutile ed impossibile cercare di copiarlo! Lo plagio qui, invece, ripercorrendolo. E spero che

la traslitterazione sia condivisa e penetrata, da chi ancora mi segue). "In un letto giace una morta fanciulla. Devo confessare che di rado mi è capitato sotto gli occhi un dipinto più commovente. Tre o quattro scolarette, compagne di classe della defunta, sono al cospetto di un mistero, che con la sua sublime grandezza, artiglia le anime in fiore, alitando il proprio gelo. Provano paura, non si riconoscono più nei loro giochi ed esercizi: i genitori, le dimore, i campi, la chiesa, ma tutto ciò lo ritroveranno l'indomani o già nell'ora seguente, torneranno alla vita consueta". Questo appunto me lo segnerei, anche per quello che vediamo di Luis: "ma tutto ciò lo ritroveranno per l'indomani". Tornare ogni volta all'amertume del risveglio e al disincanto della nuova giornata, che qui si annuncia come un lanoso congedo. Ma ascoltate ancora: "Ora però, nel prendere congedo di fronte alle spoglie dell'amica, tutto quel che conoscono non è più conosciuto, l'inconoscibile diventa familiare. Morire è davvero straordinario, e nel contempo un fatto da nulla. Una cosa qualunque, come raccogliere ciliegie quando diventano mature o andare in slitta d'inverno. Tengono i fazzoletti davanti al viso, ma nessuno versa le lacrime dolci e belle di un dolore naturale. Lo impedisce un immenso stupore sospeso su di loro, sui cui grava lo sforzo di comprendere qualcosa che non può essere compreso. Oh questa meraviglia da fanciulle è alta e grande come una catena montuosa, come una vetta alata. A loro gli abitini che indossano sembrano essersi ritratti a ineffabile lontananza. Ma li avvertiranno ancora, ne sentiranno la necessità, la delicatezza sulla pelle. Senza suoni, senza calore è tutto nella camera per solito piena di voci e di calore. Anche la camera è morta, l'orologio alla parete, i mobili, ma gli oggetti si ridesteranno dall'assenza di senso e di valore, riacquisteranno significato, e la bilancia apparirà di nuovo gentile, allegorica, ai bambini che sopportano pazienti e compiti il gelo di quest'ora, il suo sterminato silenzio. E così la speranza infranta riacquista ogni volta rosee sembianze". Sarà suggestione, ma mi pare che tutto questo coincida in modo mirabile con quello che vedo nei letti di Serrano, e con quanto cercavo difficoltosamente di esprimere: "chiome/ del cui colore io non saprei dire" (tutto letto rigorosamente dopo, e per la prima volta, rispetto a quanto ho appena scritto. Io mi sorprendo. Insospettabile plagio: un bell'incontro salutare, nel flanare sgomento e abbandonato della scrittura). Non vorrei dover elencare pedissequamente: "prender congedo di fronte alle spoglie amiche", "tutto quel che conoscono non è più conosciuto: l'inconoscibile diventa familiare". E poi quel morire fatto di nulla, confrontato ad una spensierata raccolta di more (difficile non pensare a quell'uva ingannevole e pliniesca del nostro Serrano, che evoca le nature silenti di Melendez, pure lui Luis, od i bodegones equilibristici di Sànchez Cotàn). Quel gioco schermante dei fazzoletti, che simulano un dolore, che è soltanto spalmato sulla superficie stupefatta dell'incomprendere, di quell' "immenso stupore sospeso", che incantesima anche la pendola e fa scendere un silenzio "sterminato" sopra l'erba di tutta la stanza ('le' stanze, se passiamo alla nostra pittura, con l'orologio che da analogico si fa digitale). E infine quelle catene montuose, gonfie di meraviglia, che si riversa giù nei marosi spropositati di tante avviluppate biancherie annodate e variopinte, dalle pieghe smodate ed artificiose, come prediche barocche senési, rilette dal Deleuze boulezizzato di 'Pli selon pli' (da Mallarmé: vuoto e merletti). La piega arrotolata del destino, come un'onda incontrollabile. Labile: perché una certa allure gaiamente funeraria e cerimonialmente ispanica, resiste, in queste vedute di (provvisoria, teatrale) morte della notte. E subito, infatti, quel rattrappirsi minimo, understatement, dell'apertura ottica, leggerissimamente sfuocata, anzi, affocata, che ricorda molto quei macilenti, walseriani "abitini che sembrano essersi ritratti ad ineffabile lontananza. Ma li avvertiranno ancora, ne sentiranno la necessità, la delicatezza sulla pelle. Senza suoni, senza calore". "Anche la camera è morta, ma gli oggetti si ridesteranno dall'assenza di senso e di valore". E tutto tornerà a riacquisire il banale valore quotidiano dell'acquiescienza acquerellata. Come 'chiude' Walser? Con le sue abituali iniezioni di recitato ottimismo (che fa il paio con la poesia sulla Dama grigio-bianca di Renoir. "Mandava il quadro armonici suoni, nella calca/ lietamente animata della domenica./ Ah, potessi soltanto trovarla/ la forma giusta e ridire questa/ tranquillità, questa quiete/ dal viso giù sino alle scarpe./ Quanto fine mi riterrei/ e quanto ne sarei felice!". Allora (post-Anker): "Parlottai ancora fra me e me, poi ritenni di poter dire ai presenti, con tono di voce trasognata: 'Mi considerate di certo una persona assai tranquilla. Siatelo anche voi'. Ero contento, e non mi venne da pensare che di me altri potesse mostrarsi scontento". Non è mai scontenta, la pittura di Serrano, come invece quella vedova, scontrosa, burbera di Ferroni. Che davvero è inabitata e seduttivamente inospitale: recalcitrante. La calce umettata e vissuta, che accompagna le stanze sonnacchiosamente feline di Serrano (vedi la Bedding #2) invece è come partecipe, officiante - elevando la traccia unta e trasandata del vivere in un'ostensione respirante, e come remigante, traghettatoria. Torna alla mente la commovente sequenza d'un film di Mikhalkov, 'Oci ciornie', non so se fermentata nella memoria, o completamente immaginaria, che volgeva in immagine la storia della 'Signora col cagnolino' di Cechov (ricordo che da quel film è scattato fuori il tenero cagnino della finzione, che poi Suso Cecchi d'Amico, la sceneggiatrice del film, avrebbe adottato, e che ha poi accompagnato i suoi ultimi anni di vita). Ma non è questo: nel film il pianto dirotto d'una donna infelice, distesa rigida, con le spalle rivolte contro di noi, sale, come una brina sporca d'infelicità, sino a timbrare la parete di fronte, a lambirla, distaccata come un attracco di porto, sepolto, creando una sorta di fittizio orizzonte di finestra della disperazione. Le orme del passato di vita, che tallonano anche altri interni. E, ancora una volta, mentre la vita sembra colpire come un uovo centrato le pareti di Ferroni, esterrefatte da questa intrusione cementata, qui invece la dolenza si spalma, si spatola. Non sarà felice la parola 'remiga', che sa anche di transito improvviso di pennuto remigante, ma fluisce effettivamente, si squaglia, come per uscire di scena. Come, del resto, nei rari scorci d'esterno e di parco (che qui non possono convivere) in cui le ombrate chiome d'albero si stampano sbafiate sul cielo, come nostalgiche, leggiadrissime decalcomanie decomposte: dissanguate. Timbricamente, quasi anemiche, di deglutente controluce. Tarlate. So che qualcuno non vedrà (e non condividerà) immediatamente questa frammistione d'un velario lievemente funereo, alla Raimondo di Sangro, muovere spiritico, mesmerico di pieghe marmifìcate, che questi letti non troppo redenti, scomunicati, nella lucentezza, riescono talvolta a comunicare. Intabarrati come sarcofaghi laici, dissimulate tombe del sogno, incassate nella grafica del giorno (Bedding #2, con quella macula allarmante, che si divora il pavimento; Bedding #4, tumulato in un divano-letto di rigoroso mogano, con quella uosa da sacco a pelo, che stringe l'azzurro, mentre un rametto pasquale di luce stinge, inutilmente, la coperta piastrellata; Bedding #3, con quel frammento impelagato di plaid, che pare uscito da un celebre fotogramma, eroticamente post-coitum, di Jean Seberg, che si cura le unghie sotto-lenzuola e di Belmondo, che si fuma la sua ennesima sigaretta, targando le labbra, in A bout de soufflé. Il plaid scozzese, che torna, qui, come un Leitmotiv ondulare, in diverse tabulae modulate, e pure di squincio, in quell'infilata marina, molto Lopez Garcia, ove il punctum incantato di tutto pare firmarsi e sigillarsi in quell'ombrosa tessera di spina, che è come la sorgente misteriosa di tutta quella limpida elettricità d'etere). Un amico mi ricorda l'icona sfuggente della donna che levita, sopra il mare di lenzuola arruffatte, ne lo Specchio di Tarkovskij. Ancora una testimonianza di calco disertato. Io ricordo piuttosto il breve slittamento di piani, in Giulietta degli Spiriti, ove un tapis roulant-visionario e liberante, si schiude, sotto le nera budella psicoanalitiche del grande letto Little Nemo dell'insoddisfatta protagonista (e che tante volte Pericoli ha ri-omaggiato. Nei suoi lettoni-scrittura sia del suo Autoritratto che della libresca convalescenza di Stevenson). Un letto-battaglia: ansiti e ansimi ghiacciati, come in tanti Bacon, Lucian Freud, Varlin, Soutine. Con una ricorrenza insistita: il letto del procombente delitto, che torna spesso in Sickert, Vallotton, Munch, Nolde. La slavina precipite del prossimamente insanguinato lenzuolo, che trascina nel crollo, rovinoso, giù dal materasso, anche l'arrovesciato cadavere. A partire dal prototipo, leggermente deviato, del 'Rolla' di Gervex e De Musset, dandysmo avvelenato (e la Verrou di Fragonard, in sottofondo). Il sonno arrovesciato quale delitto dell'anima. (Sickert, che è stato sospettato anche d'essere Jack lo Squartatore, ha abusato di questa formula, che ritroviamo pure in 'Interno, estate' di Hopper). Ma proprio a partire da questo 'incidente' delittuoso, ci si rende conto che il letto, nella storia della pittura (in senso culturale più vasto ho persino l'impressione che Anthony Burgess vi avesse dedicato un libro. Del resto, "Letti d'Oriente" e "Il nemico tra le coperte", quel motivo torna spesso, nei titoli della sua letteratura) il letto ha un ruolo significativamente ridottissimo. Non si mostra quasi mai, forse per decenza, codice Heys in anticipo. Quasi come per un tabù edipico, o forse anche perché non ha senso 'far vedere' soltanto il sonno (salvo che di Endimione e pochi altri. Ma tra coltri ben più arcadico-naturali). Mentre ha una funzione più forte tra le malizie di Psyche, protesa sul sonno innocente dell'incolpevole Eros, sollevando il lembo curioso del violato, casalingo lenzuolo). Se è naturale mostrarlo, il letto, durante il sogno santo o legittimo (quello giottesco di Innocento III, che immagina san Francesco risollevare le sorti d'una chiesa crollante; quello carpaccesco, rilassato di Sant' Orsola; quello pierfrancescano di Costantino) i sogni della scala di Giacobbe o del Faraone d'Egitto, che se li fa decifrare, raramente si covano in un letto, alla moderna'. Così, mentre il 'Sogno del Cavaliere' di Raffaello si gioca tutto en plein air, ed anche, spesso, quello, eretico, della Vergine bolognese, è abbastanza comprensibile che nell'antichità non si mostri esplicitamente il nido peccaminoso dell'eros, lo spazio inviso del dolore (vogliamo metterci ancora il vecchio Isacco, che tasta la mano pelosa ed ingannatrice di Giacobbe? Rembrandt, Giordano, Mattia Preti? Insomma barocchi giacili vetero-testamentari). Salvo mostrarli poi in occasione della morte o dormitio definitiva (persino il giovane Picasso: che dipinge un suo lettuccio da campo, con zanzariera, che par portato su, nel cielo d'acquerello, da una cicogna) o nella convalescenza (gracili bambine aiutando), o nella gestazione (e via con Sant'Anne, Elisabette, Madonne) sino a Garibaldi o Mazzini. Ma un breve excursus ci fa capire che sino a Balthus, per lo meno, e a Matisse, si preferiscono ancora le meno impegnative récamier, la dormeuse, la chaise-longue, il sofà d'odalisca, l'ottomana. Sineddoche del desiderio: Delacroix, Pasini, Liotard (com'è bello, nel Bedding #7, ritrovare, tra seriche lenzuola, i colori luminosi di ceramica, dei pastelli turchi di Liotard). Non si trova nemmeno troppo in Bonnard e Vuillard, il letto, strano (quando in casa di Misia si direbbe apparecchino la cuccia del vispo Nathanson, che occhieggia tra le quinte, in realtà a guardar bene si tratta d'una tavola da pranzo). Soltanto schienali (o ricerca d'allarmante biancheria impilata negli armadi) in Vallotton, pochissimo, incredibilmente, anche nei dettaglianti americani, in Merrit Chase, Childe Hassam, Eackins, nemmeno nella brulla internista Gwenn John. Ed altrettanto in Hammershoi, Tarbell o in Rops, qualcosa di spiritato, in Ensor, un pugno di copriletto rossodelirium tremens, in un Munch auto-allucinato, mentre nel suo 'Abbraccio', estremo, Schiele preferisce gettare nel desiderio una coperta a pelo per terra (salvo poi testimoniare del suo lettuccio di prigioniero in carcere: "l'arte non può essere moderna, perché è eterna). Proprio come Spitzweg, che siede il suo povero poeta in un covone di libri mantelli ombrelli e coperte, giù a terra, tatami

prussiano, o Kustodiev, che annega le sue moderne odalische-fattucchiere in un saint-honoré cellulitico di falpalas e cuscini. Ma il letto non si intrawede (molti ce ne sono invece nel Kandinskij di Murnau). Certo, deve essere l'interdetto del romanzo familiare della 'camera da letto', indagato da Marthe Robert. Il nordico Larsson ci conduce a frugare, visivamente, in tutta la casa di Anna Peterson, ma dimentica però, guarda caso, il letto strindbergiano (c'è solo un incongruo baldacchino per la bella convalescente). Quando racconta i suoi 'mobili nella valle', De Chirico trasporta una testata davanti ad un divano, ma nega la rilassata battima del letto. Che invece Gnoli trasforma in una spiaggia gessosa, e Lichtenstein in una piatta, intacchinita torta wasp. Allora rimangono solo Vrubel', con una celibe sfuriata di letto irritato, il Roerich del 'Sacre', con i suoi incassati letti da isbà (una liturgia occultante, che risale sino a Peter de Hooch: la cortina del pudore) un magnifico

schizzo di Turner, per un byroniano interno adulterino veneziano, e poi i moltissimi esercizi ottici di Menzel e Delacroix. Menzel, con sempre un odore di tenentino addosso, di guglielmino e spartano, e comunque di 'disfatta' militare, come quei suoi binocoli che danzano nel vuoto e quei suoi calchi, impiccati nella dolce penombra della parete (curiosamente, anche lui scrive a casa una lettera con disegnini di trasloco domestico, ma tralascia nevralgicamente il letto. Che però poi s'auto-ritrae per delizia privata, ed allora ammaestra pure una coltre agitata, con il vissutissimo cuscino, che assume una illusiva posizione d'accademia, di braccio troncato da scultura classica. Il classico gesto reclinato, da sarcofago, di Meleagro, defunto). In Delacroix, la liberazione dal soggetto, con quel curioso triangolino di bleu militare, che occhieggia di tra le spire. Ascoltiamo Calasso, La Folie Baudelaire (Baudelaire, che scrive, citato dal Didi-Huberman di "Somiglianza per contatto". "Quanto, indolente amata, amo vedere/ del tuo corpo leggiadro/ come seta che oscilla e trascolora/ luccicare la pelle". Questo potrebbe ripeterci Serrano). " «La pittura aveva vissuto vari secoli senza sentire il bisogno di rappresentare un letto disfatto. Poi, improvvisamente, intorno alla metà dell'Ottocento, due pittori distanti per educazione e per gusto -Delacroix e Menzel - tracciano su carta l'immagine di un letto disfatto. Sembra quasi che rappresentino, con radicale diversità di stile, e variando l'angolo di osservazione, lo stesso letto. E il mondo sgualcito e abbandonato dalla presenza umana che finalmente si mostra nella sua integrità autosufficiente, senza richiedere un supplemento di significato.

Anzi, quasi sollevato e liberato da ogni funzione di supporto e di sfondo. Soltanto un letto disfatto ci concede questo prodigio: l'assenza della figura umana — e al tempo stesso l'impronta dei corpi». (Capita, talvolta, se si cede alla tentazione d'inganno del video-contatto, di sorprendere il corrispondente, che è andato per un attimo 'di là' - un al di là che non ha consistenza visiva, e rimbomba - nel vuoto cieco e sordo del non-schermo. Epperò, ecco che ha paradossalmente lasciato libero, e tradito, sgombro, il campo dietro la sua fuggitiva sagoma conversevole; vuoto che si vendica ed insuperbisce, cantando il breve attimo di supremazia. Ed ecco allora che viene a galla lentamente lo sfatto lettuccio da campo, la libreria, con troppo pochi abitanti, l'arruffo della stanza, le scarpe da ginnastica abbandonate nella fretta del rientro, la cravatta slacciata, che riga il dorso dell'ottuso divano Ikea. Oddio, appena ri-letto: abbiamo introdotto la parola Ikea in casa Praz, addirittura un 'ecchisenefrega", scandalo! eppure è forse, in parte, anche il fascino dell'effrazione di Luis Serrano, in queste stanze leggermente scardinate. Come un ladro da settimana enigmistica, o meglio, vista l'eleganza del tono-confronto, un fotogramma nebbioso d'Arsenio Lupin-Fantomas, che penetra nella notte del film muto, con i suoi jeans slabbrati e le sue ditate da zingaro spettinato, ed illumina con la pila del luogo comune queste esterrefatte vestigia... ma che sarà mai quel tempio ricostruito in sughero? e quel micro-cammeo di rimembranza napoleonica? e quelle stanze disegnate di ogni precisione del russo Serebriakov? e questo vecchio divano Luigi Filippo, con i suoi rouleaux, lisi di seta strappata? Riportare lo spettinato e la vita, nella sopita 'Casa della Vita' del Divino, imbustatissimo, Anglista ancora aleggiante, tra i rigorini impeccabili dei suoi lambrequin regimental, le ondeggianti mantovane gattopardesche, le rigorose sintassi, rigide e rettilinee, dell'estetica Impero... Grazie a Luis, s'immagini una situazione onirica, forse non proprio igienistica, ma assai fascinosa, ritorno à rebours della pellicola coctoiana. Come se ogni volta, entrando in una stanza d'albergo, ritrovassimo non la sagoma spenta, Tonfante, da dinosauro agghindato, del letto, ben carezzato truccato e raggelato, nella sua compostezza camerieresca, con magari sopra persino il bacio notturno del cioccolatino; no, un letto disfatto e già vissuto, con le circonvoluzioni intime di tante indiscrezioni da raccontarci, all'orecchio, e le ruotine sotto, pronte a partire con noi (Truman Capote accompagnava pagando la domestica del ricco condominio newyorkese, durante le varie faccende, ai piani, e si nutriva cosi di storie, disfatte ed indiscrete). Per poi richiudere silenziosamente la porta alle spalle, andandosene, ultimo sguardo, con il letto miracolosamente immacolato, intatto. Non è così importante dormirci, schizzinosamente. Ascoltiamo Charles Simic. "Amano le stanze ombreggiate,/ le carte da parati consunte,/ le crepe nel soffitto, /le mosche sul cuscino./ Se ti viene la tentazione di allungarti,/ non essere sorpreso,/ non farai caso alle lenzuola sporche,/ al raschio delle molle arrugginite/ mentre ti metti comodo./ La stanza è un cinema buio/ dove si proietta/ una pellicola sgranata in bianco e nero./ Un'immagine sfuocata di corpi svestiti/ nel momento della dolce indolenza/ che segue all'amore,/ quando il più malvagio dei cuori/ arriva a credere/ che la felicità può durare per sempre".

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