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Luis Serrano

Travelling

in Akragas, Luis Serrano, Alessandro Crapanzano. Catalogo della mostra (Roma, galleria Honos Art, 21 aprile – 4 giugno 2016)

Roma (Arbor Sapientae editore) 2016, pp.7-9

 

  

Forse per ragioni biografiche, sono pochi i luoghi che riesco a considerare pienamente miei e sono riluttante a proiettare gratuitamente su di me l’ombra prestigiosa di nomi di città dal passato leggendario a cui in realtà non appartengo. Troppo spesso un posto nuovo, nel suo apparire fatalmente “così com’è” al momento di vederlo per la prima volta, mi fa pensare all’impossibilità di riconquistare quel minimo di prospettiva o di memoria – qualcosa di diverso rispetto a una conoscenza comunque obbligata - che rende immediato e legittimo il legame con un territorio. Prospettiva e memoria che oltretutto, in ragione della consuetudine, sono le sole in grado di mitigare i vorticosi e troppo spesso infelici cambiamenti che investono coste, colline, paesi e monumenti. E la Sicilia, estrema nella bellezza, non è aliena a queste alterazioni.

In viaggio lo sguardo si fa per forza di cose fugace. Ma forse è proprio il mestiere di pittore che viene in soccorso, offrendo la possibilità di prolungare e consolidare una visione troppo rapida e facendosi antidoto almeno parziale di quella fugacità. In questo modo, un’esperienza sensoriale o un momento privato possono trasformarsi in un assunto artistico ed essere messi in salvo

Questo mio “fixér l’apparence d’un jour et de toujours”[1] passa poi per una lenta sedimentazione, per una selezione che tende istintivamente a isolare singoli elementi per caricare la sua valenza simbolica. Provando a non cedere, in questo caso, alle tentazioni del rovinismo da “fortuna del dorico”, agli echi poussiniani della Concordia quando al tramonto si staglia contro solide nuvole dorate, al profumo ottocentesco della villa Hardcastle avvolta dagli oleandri… Ma pur sempre nella assoluta convinzione che “per trascendere il mondo bisogna che il mondo ci sia, per attingere il sovrannaturale è necessario che ci si rappresenti il naturale”[2] e quindi volendo raffigurare precisamente quell’albero, quel luogo,  quella sera, quell’ora.

Mi rendo conto così che le opere esposte in mostra corrispondono a una sorta di travelling cinematografico che nella Valle dei Templi riprende la lenta discesa dal colonnato del tempio di Hera ancora illuminato dal sole fino ai telamoni distesi sulla pianura e gli uliveti immersi nel buio della prima ora notturna, camminando lungo un crinale primigenio, intriso di storia, in bilico nel tempo, pronto malgré tout a diventare mitico anche nel proprio racconto personale.

 

 

 

 

[1] Jérôme et Jean Tharaud, citato in  Stéphane-Jacques Addade, La parenthèse marocaine de Bernard Boutet de Monvel , in Maroc, les trésors du royaume, catalogo della mostra (Parigi, Petit-Palais, Musée des beaux-arts de la Ville de Paris, 15 aprile-18 luglio 1999), Parigi 1999, pp. 234 - 239.

 

[1] Elémire Zolla e Grazia Marchianò, Il conoscitore di segreti, Milano (Rizzoli) 2006, p. 67.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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