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Elena di Majo

Bedding e un’intervista a Luis Serrano

in Bedding, catalogo della mostra (Roma, Museo Mario Praz, 6 ottobre - 4 novembre 2012), Roma (Palombi Editori) 2012, pp. 11-17

 

 

“Oggi che si sveglia nella stanza rigata, / dubitoso cerca – la mano / ravvolta ancora nel lenzuolo / tiepido come una benda lenta di sangue - / il muro, il muro che non c’è. / Sono i rumori del mattino, i distanziati rumori / della giornata agricola – in via / di porsi in marcia – a rivelargli che sta a casa sua, dentro / una stanza inondata a metà dal sole / vivo ma presago d’autunno, / un sole che occupa senza scampo il letto / sfatto del fratello, del fratello/ che non c’è.”; o ancora: “Sono passati pochi anni e ci viene / assegnata la stanza data / alla voluttà cattolica: / lo dimostrano / i tanti elementi del termosifone / per cui le notti del dicembre nevoso / di Parma si tramutano / in estive per i nostri corpi disfatti – / le nostre abbandonate salme – quando / anche il solo lenzuolo è fastidioso.” (Attilio Bertolucci)*

Lo studio romano di Luis Serrano, insieme a quello di alcuni altri artisti, lo si trova alla estrema Circonvallazione Gianicolense là dove la periferia della città dà l’ingannevole impressione di sconfinare all’improvviso nella campagna, in una luminosa e ampia stanza al quarto piano di un eccellente e singolare edificio tardo razionalista, sede ai piani inferiori di un istituto scolastico di proprietà privata.

Poco più di un anno fa, durante una delle mie saltuarie visite al suo studio, la visione di alcuni dipinti ai quali in quel momento stava lavorando su di un tema per lui fino ad allora del tutto inedito mi ha subito evocato il titolo di un appassionante poema in versi liberi di Attilio Bertolucci, La camera da letto, pubblicato da Garzanti nel 1984. Sono quindi andata a risfogliare qua e là il lungo e romanzesco testo sull’epopea familiare del poeta parmense per cercarvi, ove fosse possibile rintracciarla, una qualche assonanza tra gli spazi poetici raccontati da Bertolucci e quelli pittorici che Luis Serrano così magistralmente rappresentava attraverso i suoi ‘letti disfatti’. E alcuni di questi versi, che più mi sono sembrati consentanei ai dipinti che avevo ammirato, mi è piaciuto qui sopra estrapolare dal loro complesso contesto narrativo.

Da allora il tema delle ‘camere da letto’ - o meglio dei ‘letti’- di Luis Serrano, da lui volutamente inserito in un più vasto e meditato progetto pittorico che fosse capace di riflettere il suo specifico situarsi all’interno dei diversi linguaggi dell’arte, ha proliferato in innumerevoli variazioni che si configurano qui adesso come un racconto visivo dal vigoroso segno realistico ma allo stesso tempo carico di un altrettanto forte valore emblematico delle immagini.

Così come negli altri generi pittorici che costituiscono da sempre il suo terreno preferito di indagine sul vero - siano essi la natura morta (perché non ricordare gli eccitati mazzi di fiori, o le inquietanti mele cotogne vaganti nel vuoto a guisa di pianeti, oppure i monumentali grappoli di uva bianca e di uva nera tali da gareggiare in ‘illusionismo’ pittorico con quelli del mitico Zeusi in gara a sua volta con l’antagonista Parrasio, come ci racconta Plinio ?), oppure il ritratto (quasi sempre di commissione, ambientato in interni) o ancora il paesaggio agreste (gli alberi, gli alberi, prima di tutto !) -, anche qui è sempre il genere a dettare le sue proprie leggi compositive, leggi che per Luis Serrano affondano le loro radici profonde nella tradizione ormai secolare della storia dell’arte occidentale, della pittura come del disegno. Cosicché è difficile dire se per lui l’impulso primario alla raffigurazione sia in effetti da rintracciare nel soggetto che di volta in volta ha di fronte e del quale con reiterati e progressivi avvicinamenti vuole appropriarsi nella sua essenza più veritiera e archetipica, oppure nella memoria remota (ma forse più urgente che remota) di immagini attraverso le quali su quegli stessi soggetti i grandi artisti di tutti i tempi hanno plasmato la sua (e la nostra) percezione delle forme del reale. Da pittore e insieme da storico dell’arte quale egli è, Luis Serrano ha verosimilmente lavorato su ambedue i registri visivi, in modo tale da conferire alla concretezza immediata del suo sguardo sull’oggetto un’autorevolezza antica. E così i letti che emergono liberamente alla memoria di chi avesse una qualche dimestichezza con le immagini dell’arte possono variamente spaziare dai sontuosi letti del dolore, che nei dipinti neoclassici fanno da magniloquente scenografia teatrale alle storie drammatiche di amore e morte degli eroi, allusive a ben definiti ammaestramenti morali, a quelli che rimandano invece a un segno tutt’affatto differente laddove il medesimo soggetto diviene l’elemento distintivo e immediatamente percepibile di una dimensione tutta laica, quotidiana e terrena, intima e personale, ma ugualmente frutto di una vigile educazione alla forma (o piuttosto di un suo espresso stravolgimento) e di una matura presa di possesso della rappresentazione. E tra questi mi limito a citare, fra i tanti possibili che vengono qui alla mente, quel magistrale Lit défait di Delacroix nell’omonimo museo di Parigi, acquarello di cui lo stesso Luis mi dice di aver sempre tenuto con sé una bella riproduzione in cartolina, e anche - perché no? – l’ardito dipinto del Mazzini morente di Silvestro Lega o, all’opposto, l’algido letto bene assettato di Domenico Gnoli come pure i molti letti torbidamente abitati di Lucien Freud. Pur nella diversità di ispirazione, é certamente a tali spazi pittorici dal carattere assolutamente privato e in qualche modo come claustrofobico che possiamo idealmente riferire oggi i letti di Luis Serrano. Letti vuoti e disfatti - al riparo da ogni intromissione esterna, riservati soltanto al riposo, al sogno, al piacere e anche al dolore - che nel groviglio delle lenzuola e dei plaid di lana, così teneramente familiari con le loro frange e i loro riquadri a colori vivaci, conservano ancora nella materia pittorica sorprendentemente viva e presente le impronte (maschili? femminili? entrambi?) dei tanti corpi - tanti quanti sono qui i loro scomposti giacigli - appena usciti (o fuggiti?) dalla scena. Una assenza-presenza cui si deve il pathos e la suggestione di un racconto che mi piace leggere come autobiografico di una vita o anche di più vite d’artista ciascuna nella sua singolare autenticità (un indizio: due oli alla parete di una delle stanze, dipinti anni addietro da Luis Serrano e raffiguranti stivali e guanti da lavoro), offerta allo sguardo stupefatto e insieme indagatore dei nostri occhi attenti ma della quale bisogna saper ripercorrere le tracce per poterne districare le fila.

* Attilio Bertolucci, La camera da letto, libri XIII e XXXV, Garzanti, ed.1988, pp.109-110, 294

Luis, puoi raccontare da dove viene la tua famiglia e quale è stato l’ambiente geografico, sociale e culturale nel quale è avvenuta la tua formazione?

Sono nato a Madrid ma la mia famiglia proviene da diversi punti del sudest della Spagna. Piccoli proprietari terrieri votati poi alla pubblica amministrazione, alla docenza universitaria, alla politica, con scarsa inclinazione per la scienza e poca curiosità per il mondo dell’arte, visto ancora per lo più come pittoresca bohème. Nessuna figura d’artista da prendere come riferimento e, anzi, rischio per conto mio d’incarnare, con le dovute sfumature, la fatidica sequenza generazionale contadino- avvocato-poeta. Clima nell’insieme intellettuale, stampo conservatore ma eterodosso e certamente dialettico. Nel racconto familiare è prevalsa la linea materna e con questa, non priva di elementi tragici, l’attaccamento a luoghi arretrati e arcaici, dove l’essenzialità del paesaggio, l’osservazione prolungata di cose anche minime, la lentezza delle ore e la noia hanno avuto sicuramente influenza decisiva nel mio modo di percepire la realtà. Nel mio sbocciare come artista non ci sono state epifanie sorprendenti, piuttosto una lenta maturazione. Una vaga attenzione per il mondo delle forme, un certo atteggiamento sognante ma nessun indizio profetico o prova mirabolante. Quanto ho realizzato da adolescente o da ragazzo è stato per imitazione, per gioco, senza dargli importanza, senza cercare il supporto di corsi o maestri. Avrei potuto fare altre cose o quanto meno così mi è sembrato fino a un certo punto. Ho fatto l’Accademia di Belle Arti a Madrid, un centro ancora abbastanza esigente e rigoroso se si considerano le contraddizioni a cui sono oggi fatalmente sottoposte scuole di questo tipo o i mezzi di cui dispongono. L’impianto era piuttosto tradizionale, le materie poche, si coglievano ancora i resti della vecchia disciplina accademica. I professori apparivano di diseguale autorità, ma la disponibilità di aule e modelli, le molte ore dedicate al lavoro, la forte personalità di alcuni colleghi e lo scambio di idee con loro hanno avuto certamente grande valore.

Perché hai scelto di venire in Italia e in particolare a Roma?

Dopo la laurea ho vinto una borsa di studio per preparare all’estero una tesi di dottorato in Storia dell’Arte, materia inclusa nel piano di studi dell’Accademia. A Roma ho frequentato diversi corsi alla Sapienza, seguito nelle mie ricerche da Corrado Maltese. Mi ha spinto il bisogno di procrastinare in qualche modo l’incerto avvio della carriera d’artista piuttosto che il desiderio di conoscere un altro paese. Il mio arrivo in Italia ha avuto perciò qualcosa di casuale e si è reso difficile per mancanza di una prospettiva precisa. Avevo una discreta conoscenza della letteratura, del cinema e, naturalmente, dell’arte italiana. Ma non era un paese di elezione (né del resto ne avevo di altri) e mi è mancato sempre l’atteggiamento mitizzante e acritico dello straniero innamorato a priori del Bel Paese. Il contrasto tra l’immagine codificata e imparata e la realtà osservata coi miei occhi fu forte e diede avvio a un esercizio di analisi e confronto che non si è mai interrotto.

Quali sono stati i contatti, le amicizie e i “maestri” che più hanno contato nella ricerca della tua identità di artista, prima in Spagna e poi in Italia?

Come ho già detto, nessuno di questi contatti è arrivato per via familiare. Per preparare il difficile esame d’ammissione all’Accademia, ho frequentato per un paio d’anni lo studio che un anziano pittore, Eduardo Peña, aveva nella Plaza Mayor di Madrid. Forse perché era la prima volta che avevo a che fare con calchi in gesso, manichini e modelli, con carta e carboncini, con altri studenti intenti a superare le stesse sfide, l’impressione è stata molto forte, una vera iniziazione. Per timidezza non ho avuto rapporti diretti con nessuno dei professori dell’Accademia o con artisti già affermati. I colleghi di allora, personalità spesso fantasiose, eccentriche, talvolta persino vagamente disadattate, hanno avuto invece un peso importante. Il dialogo, lo scambio tra artisti che vedono l’opera per così dire dal suo interno, ha caratteriste specifiche ed è insostituibile. Ma perché esso possa darsi è necessario condividere in qualche misura gusti, cultura visiva, stile. Tanti artisti mi sono del tutto estranei, indifferenti. Potrei dire di provare, in generale, una certa allergia per il mondo artistico in quanto tale; con i miei amici non abbiamo voluto mai fare “gli artisti”, provando a fare arte ma senza parlarne o facendolo il minimo possibile. In Italia conosco pochi artisti. È stata invece fondamentale l’amicizia con molti storici dell’arte che mi hanno aiutato a fare scoperte decisive, spingendomi sempre verso nuovi traguardi, generosi di suggerimenti e attenzione verso il mio lavoro.

Quando e come è avvenuta la scelta del linguaggio e della tecnica con cui esprimerti? Ed è stata una scelta univoca o hai sperimentato nel tempo altre forme espressive?

Ho voluto sempre “fare quadri”, non un’altra cosa, e questo significa già trovarsi nel solco di una tradizione, avere una serie di modelli. La figurazione, o comunque un certo grado di realismo, mi è sembrata veicolo o vincolo imprescindibile nella necessità di individuare – quella e non quell’altra cosa – e di possedere, almeno per via interposta e sublimata. Una sua neutralità formale è stata anche una sorta di garanzia e di sollievo di fronte alla forsennata ricerca di una formula originale destinata, mi pare, a cristallizzarsi in un “marchio” obbligatorio e a passare fatalmente di moda. Forse è intervenuto anche un elemento di emulazione e di sfida rispetto ai misteri della tecnica o alla ricchezza nascosta della materia pittorica. Purtroppo non sono riuscito a liberarmi completamente da un certo complesso che mi insegue dai tempi dell’accademia e che deriva dal falso e facile scontro tra figurativo e modernità. Mi sono sentito molto spesso inquadrato là dove non volevo stare, accostato a opere o artisti che non mi piacevano, privato da una condizione di contemporaneità che naturalmente rivendico. Ma, certo, a questo proposito bisognerebbe addentrarsi in problemi di cultura diffusa o di linguaggio, di attenzione e capacità critica, che sembrano troppo impegnativi per l’occasione.Ho usato sempre tecniche abbastanza tradizionali e non sono molto attratto dall’improvvisazione o dai materiali nuovi anche se capisco la benefica sfida che rappresenta adoperarli, impaurito, per la prima volta. Utilizzo la fotografia in modo del tutto amatoriale, senza pretese tecniche o estetiche, come uno strumento in più del mio lavoro. Capisco che anche usata in questo modo qualcosa filtra nelle opere ma sul peso della fotografia – come linguaggio, come supporto, come archivio visivo - nel mio lavoro e i suoi rapporti con la mia pittura il discorso sarebbe troppo lungo per affrontarlo ora. Qualunque sia, o sia stato nel tempo, il grado di precisione figurativa delle mie opere, non ho mai considerato come mia radice culturale la pittura iperrealista o fotorealista.

Quali sono per te gli stimoli che presiedono all’individuazione del genere o del soggetto da affrontare?

Sono pochi. Si ripetono anche nell’arco degli anni. Un repertorio di forme o motivi che attira con forza irresistibile anche quando appaiono legati a piccoli pretesti. Di certo non è questione d’ispirazione ma piuttosto di una lenta sedimentazione nel tempo, di un selezionare e scartare in funzione dell’opportunità, della fattibilità, delle potenzialità plastiche di un soggetto. Purtroppo ci sono molte cose che non possono essere dette in pittura. Altre che, per quanto attraenti o importanti, è meglio non dire. Bisogna saperlo accettare. E naturalmente, per quanto il mestiere consista precisamente nel fabbricarle, si è anche coscienti della saturazione d’immagini attorno a noi e quindi dall’esigenza di scegliere, di tentare di evitare l’inutile. Compito arduo in realtà per la difficoltà di individuare un soggetto significativo, per le richieste a cui si è talvolta sottoposti, per un’idea di serialità tematica che diventa impositiva. Talvolta si crea una interessante relazione, anzi se è spontanea e non forzata può essere l’intreccio migliore, tra un tema osservato nella realtà e la scoperta di un’opera d’arte che lo cristallizza come motivo proiettandolo di nuovo nel reale. È il caso delle opere in mostra la cui spinta iniziale è la scoperta dell’acquarello con il lit défait in una lontana visita all’atelier Delacroix; una visione che da subito ha evocato altri letti già visti e che, a posteriori, è andata a sovrapporsi come una specie di matrice a immagini di stanze “contemporanee” studiate in seguito.

E quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente suggestionato, dagli antichi ai moderni ai contemporanei? E quanto è forte il legame con le tue radici nell’arte spagnola?

 

La risposta è complessa se presa seriamente. Credo che si debba cercare sempre e che sbiadito l’interesse per un autore o per una stagione dell’arte, pur amandola e riverendola, sia necessario passare oltre. Diffido abbastanza, questo sì, di un gusto onnicomprensivo e credo che nello scegliere, nel preferire un artista o un’opera ad un’altra si compia una scelta persino morale. Per questo trovo molto interessante, negli altri, la costruzione di una sorta di biografia sulla base delle successive scoperte e preferenze e del filo che le lega. Cataloghi o libri d’arte scarseggiavano nella biblioteca familiare ma quei pochi – i grossi volumi di Chastel o Bianchi Bandinelli della collana “L’universo delle forme” così ricchi d’immagini o le piccole brochures di semi sconosciuti artisti spagnoli degli anni Sessanta – li ho guardati infinite volte imparandoli a fondo. Purtroppo i grandi nomi mi sembrano in questo momento usurati dalla divulgazione, dalle mostre incessanti, dalla loro ossessiva e banale riproduzione e spesso serve uno sforzo di concentrazione per ricordarsi del loro pieno valore. Ci sono artisti minori conosciuti fortuitamente sfogliando un catalogo ma diventati poi un riferimento importante. Altri che mi hanno attratto perché ho intravisto in loro un percorso possibile, un’identità gemellare nel cui solco provavo orgoglio a collocarmi. La relazione indubbiamente forte con l’arte spagnola credo dipenda, innanzitutto, dal modo di aderire a una realtà per molti versi condivisa e che forse impone da sola un certo codice espressivo e poi dal suo costituire una sorta di fondale davanti al quale sono cresciuto anche come artista. Ma se vogliamo alleggerire il tono, ecco alcuni nomi della brigata in cui mi compiaccio di sognarmi in paradiso: gli sconosciuti autori della pittura parietale romana e campana, i più o meno noti scultori greci e romani, Piero della Francesca, Holbein, Veronese, Giambologna, Valentin, Cavallino, Ribera, Juan Fernandez “el Labrador”, Velázquez, Murillo, Gentileschi (Orazio), Fetti, Cantarini, Strozzi, Jordaens, Terbrugghen, Mola, Batoni, Chardin, Meléndez, Lusieri, Serpotta, Liotard, Vien, Paret, Corot, Morelli, Mancini, Degas, Fantin-Latour, Shishkin, Eakins, Vuillard, Bonnard, Capogrossi, Cavalli, Pirandello, Wyeth, Bérard, Deineka, Rivers, Kitaj, Andrews, Porter, Fischl, Lòpez Garcìa, Arikha, Tsarouchis, Hockney, Xiaodong, Tuymans, Mortimer, Borremans, de la Concha, Orquin.

 

E c’è qualche allusivo legame tra il genere degli “interni” che qui affronti – dopo il paesaggio, la natura morta, il ritratto – con il contesto tanto caratterizzato delle stanze della Casa Praz dove ora ti trovi a esporre?

Ho avuto presto una copia dell’edizione spagnola di Gusto Neoclassico e, nei primi tempi italiani, il Panopticon romano o la raccolta di articoli di viaggi pubblicata da Adelphi mi hanno fatto da guida nella scoperta della città e del paese. Al Museo Praz sono entrato per la prima volta, poco tempo dopo la sua apertura, una mattina d’estate limpida e asciutta che contrastava fortemente con la penombra in cui erano immerse le sale. L’impressione, come immagino accada a molti, fu un misto di attrazione e repulsione, utile spinta alla curiosità. Come in tutti musei, ci sono qui opere a cui si resta affezionati con tenacia: mobili, ventagli, qualche piccola scultura, il ritratto della principessa Spinola di Sablet, il gruppo di famiglia di Gérard o il ritratto di Maria Isabella di Napoli nell’appartamento di Capodimonte di Abbati. I quadri d’interni, le scene di conversazione, l’atmosfera generale di questa casa-museo mi hanno fatto immaginare un accostamento possibile – pur con tutte le differenze di stile e di poetica e anzi sottolineando il contrasto - con le opere che stavo realizzando in questi ultimi mesi e che ora presento in mostra.

Qual è il tuo rapporto con il “sistema dell’arte” nel quale ti trovi attualmente, volente o nolente, a operare?

Accetto, qualche volta con distacco indifferente, altre con maggiore effervescenza critica, che sia il confuso campo di battaglia in cui bisogna muoversi, evitando inutili lagne. La mia posizione, nell’insieme, resta però abbastanza marginale sia per scelta che per costrizione. Nell’apparente omogeneità del sistema ci sono, infatti, molte forme diverse di esercitare il mestiere che poco o nulla hanno da spartire tra loro. Sono molti i fattori – l’arbitrarietà delle scelte, le improvvisazioni organizzative o critiche, i parametri di valutazione o le formalità senza senso - che destano perplessità o smarrimento. Ma non è possibile farsi carico personale di tutte queste contraddizioni. A dispetto di ogni retorica sull’arte, dispiace che spinti da una parte alla necessaria professionalizzazione ci si veda costretti d’altra - e molto spesso - a una dispersione lavorativa che rallenta il maturare della propria opera. Credo, tuttavia, di aver imparato a cogliere e ad apprezzare il grado d’indipendenza che talvolta può derivare da una posizione defilata.

 

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