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Edoardo Sassi

Trialogo tra Mauro, Gonzalo, Luis

in Trialogo. Mauro Maugliani, Gonzalo Orquín, Luis Serrano, catalogo della mostra (Roma, Galleria L’Opera, 25 settembre – 15 novembre 2013), Roma (Palombi Editori) 2013, pp. 7-18

 

 

 

 

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Le immagini sono in questi casi agenti evocatori di episodi antropologicamente cruciali: i matrimoni, la morte, temi entrambi e non a caso legati anche all’essercizio di culti, e ciò accade per lo più in ogni tradizione. Ma un tema antropologicamente cruciale, anche esso generatore di culti (basti pensare agli antichi, domestici Lari), un tema che mette in moto gli stessi meccanismi di recupero/rimozione, le stesse possibili suggestioni estetiche, è anche quello della casa.

In questo caso, in particolare, un’antica casa di famiglia, quella che da secoli si trova nella regione spagnola della Mancha. Luis Serrano è partito da questo mero dato autobiografico per le sue opere esposte, che sono tre, anzi tre più una; perché esiste anche un disegno preparatorio ma che forse sarebbe più corretto definire un disegno di “attesa”; un’opera in qualche modo anche a se stante, autosufficente e bellissima da un punto di vista estetico; ma soprattutto, a mio avviso, un’opera rivelatrice di una caratteristica essenziale e ricorrente del lavoro di questo artista che somiglia, anche nel carattere, ai suoi lavori: un personaggio un filo secreto, dai tratti misteriosi e di poche parole, inizialmente chiuso e forse addirittura diffidente, ma in grado di disvelare mondi di straordinaria intensità poetica.

Questa caratteristica essenziale del modo di procedere del Serrano artista è la lentezza, ma una lentezza, si badi, che può anche prescindere dei tempi oggettivi di realizzazione di un’opera. Lentezza come sedimentazione del tempo, piuttosto. Lentezza con cui evidentemente un’immagine entra nel campo visivo/poetico di Luis e lì resta, a lungo.

Serrano mi ha fatto sempre pensare, di rimando, a Morandi, ma non precisamente per un paragone tecnico tra i due. Quel Morandi, piuttosto, maestro per antonomasia di poesia in pittura, pittore parco di soggetti quanti altri mai, altro exemplum di filosofica “lentezza” nell’approcciare il soggetto, quasi sempre lo stesso. Quel disegno a carboncino di Serrano, il disegno “in attesa” di diventare quadro, lo vidi una prima volta una mattina durante una delle mie visite nello studio del pittore. E subito decisi d’inserirlo nella mostra perché subito mi apparve non nella sua reale consistenza, denotativa, di semplice studio preparatorio, bensì nella sua caratteristica di opera annunciatrice, quasi epifanica, di quel che sarebbe stato di là da venire. Un’attesa appunto, prima di prendere, come si dice, il toro per le corna.

Quel disegno a carboncino raffigurava un vecchio divano mezzo sfondato, con sopra adagiati dei teli. E un vecchio divano mezzo sfondato – anzi: il medesimo vecchio divano mezzo sfondato – sarebbe stato di lì a poco il protagonista anche di tutte le altre opere di Luis in mostra. “Suore, matrimoni, interni” si è chiamata questa esposizione, ma per un motivo puramente metrico. Avrebbe potuto benissimo intitolarsi “Suore, matrimoni, divano”. Quel divano che ora, feticcio e forma de-forme, sempre riconoscibile eppur sempre diverso, si osserva, oltre che nel disegno “di attesa”, nella grande tela di due metri per due, nell’opera statuaria di “rozzo” cartone con aghi e tessuto panneggiato adagiato sopra, e nel lavoro bidimensionale che è una tela di lino , sostanzialmente pittorica nell’esito finale ma rigorosamente non dipinta. Una tela composta a mano piuttosto, quasi “zolla” per “zolla”, in cui di nuovo emergono materiali volutamente “poveri” di costruzione, cioè ancora stoffa, corda, spago e un ricamo su carta lucida che cita, di nuovo, lo stesso divano, stavolta in miniatura (un divano nel divano dunque).

Questa ripetizione quasi ossessiva dello stesso soggetto nasconde in realtà un approccio lirico alla materia come se l’artista, dopo averla tenuta “in attesa”, si fosse innamorato di questa forma tanto da volerla «cantare» più e più volte, reiteratamente. Un medesimo canto con tre variazioni di tema (pittorico, scultoreo, costruttivo, comunque un tema fortemente plastico) e almeno altrettante di timbro, un canto che è dunque quasi una litania, in cui evidentemente trovano spazio (artistico) anche le p i e g h e del tempo, della forma, le polveri accumulate, le lacerazioni, i tarli, perfino le macchie e i pulviscoli sedimentati nel muro bianco e calcinato che nella tela dipinta c a m p e g g i a sulla metà esatta della superficie del quadro. Un muro dunque, cioè uno spazio dove è assente ogni narrazione, ma protagonista dell'opera tanto quanto il divano rappresentato in proporzione reale, uno a uno.

Bisogna osservarlo attentamente e da vicino, quel muro: vibrazioni, svirgolature, solchi, segni impressi, «respiri». Così come occorre concentrarsi sulle parti in cui il divano mostra di più i segni di disfacimento dovuti al tempo. Bisogna farlo per ottenere alcune informazioni importanti sul modo di dipingere di Serrano; un realista, certo, un figurativo, che però diffonde in un centimetro quadro di ogni sua opera più informale e più astrazione (lirica, non matematica) di un campione di informalismo (lo stesso vale anche per l'altro spagnolo, Orquin, entrambi certamente memori della lezione di Velàzquez e Zurbaran, ovvero dell'importanza pittorica degli spazi spogli).

La variazione - minima, essenziale, poetica - su uno stesso tema era stata anche la caratteristica al centro dell'ultima mostra di Serrano che avevo avuto modo di vedere, una

personale dell'artista allestita nella Casa Museo Mario Praz a Palazzo Primoli, dove si osservavano, esposte in un unico ambiente, dieci tele tutte raffiguranti dei letti disfatti. Sapevo dunque che il tema degli interni era consono e in linea con la ricerca recente di Luis. Inoltre, conoscendo un po' il suo carattere, e avendo intuito anche una sua qualche iniziale perplessità nel dover straniare dal sicuro approdo pittorico in almeno due delle tre opere richieste, decisi di aver già straniato io abbastanza quando gli suggerii un tema certamente nelle sue corde.

Una volta ebbi a scrivere, a proposito del suo lavoro, che quando si sa dipingere come lui si può essere contemporanei perfino ritraendo mazzi di fiori. Cosa che infatti Serrano ha fatto, e fa, magistralmente (forse anche con un filo di snobismo). Fiori per non dire di paesaggi, ritratti, nature morte o vive che siano. Luis dipinge spesso anche alberi, solo alberi, o grappoli d'uva. Figurarsi dunque se non sarebbero venute fuori mille e infinite vibrazioni da un divano, anzi d a tre divani (più Inattesa») realizzati dalle sue mani.

Quel divano poi non era evidentemente solo una bella forma che aveva attratto l'occhio dell'artista. Quel divano era di più, un divano «parlante», con una storia d a raccontare, volente o nolente Luis. Lungi infatti dal voler fare, anche nel suo caso, della facile psicologia d'accatto, va tuttavia spiegato che quella sagoma di legno, segnata in più punti dall'inesorabile trascorrere degli anni, narra, o evoca se si preferisce, un divano reale di cui lo stesso artista ci ha raccontato, un po', la storia. Un po', perché per innato pudore, per un suo garbo (che è anche estetico) con Luis occorre farenecessariamente i conti anche con molti non-detti.

Quel divano, innanzitutto, il pittore lo osserva così com'è da decenni, grossomodo sempre lo stesso e nelle stesse condizioni in cui sì trova oggi e da chissà quanto tempo. Un divano un po' misteriosamente coperto da panneggi, depositato in una delle molte soffitte di una vecchia, grande casa appartenente alla famiglia di Serrano da secoli.

Una casa non più abitata con continuità dagli anni della Guerra Civile in Spagna. Ma una casa dove Luis si reca ogni anno, puntualmente, d'estate: «Tutte le estati della mia vita lì, a volte, negli ultimi anni, da s o l o . . . » . Un edificio bianco in un piccolissimo centro che oggi conta un centinaio di anime, nell'arida Mancha, terra brulla e riarsa dal sole. E un edificio, va da sé, dove inevitabilmente si intrecciano memorie andate, destini, saghe familiari, nell'inesorabile trascorrere delle stagioni di una vita, di tante vite, che quel divano pare simboleggiare alla perfezione.

La mimesi apparente di una forma data - un vecchio divano lacero e semi coperto da teli - si rivela, più in profondità, antimimesis, ovvero metamorfosi della cosa rappresentata: un fenomeno pari a quello che in poesia si chiama metafora. Serrano con la sua pittura e c o n le sue due altre creazioni, misurandosi più volte con lo stesso soggetto (pochissime e limitate all'enumerazione anche le variazioni dei titoli: Sofà C.H. # 1 per il quadro, Sofà C.H. # 2 per il lavoro tessile, Sofà C.H. # 3 per la scultura in cartone, Sofà C.H. # 4 per il disegno a carboncino) pare voler infatti dare forma a quello che Proust chiamava l'«immenso edificio del ricordo».

Anche a Luis, come alla nonna della Recherche, artisticamente parlando «sarebbe parso meschino badar troppo alla solidità di un legno su cui si distingueva ancora un complimento, un sorriso, talvolta una bella fantasia del passato». Dunque un divano parlante, il suo (i suoi). Quattro immagini di grande eleganza formale, sospese e quasi immerse in lunghi, profondi silenzi. Quattro figure che ad osservarle, ancora una volta proustianamente, par di udire gli scricchiolii organici del legno o una sonora merlettatura di tarmi («...forse l'immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall'immobilità del nostro pensiero nei loro confronti»).

Divani come soggetti «vivi» e intensi, a saperli «ascoltare»: belli perché vissuti, ma che al tempo stesso rimandano a stanze che si sono abitate o solo attraversate nella vita, stanze che non si abitano più, luoghi della memoria che a un certo punto tornano addirittura come immagini, prepotenti, forti plasticamente e non solo, tanto forti d a necessitare di un'attesa prima del piacevole naufragare nell'esercizio dì una pittura profondamente, intensamente innamorata.

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